martedì 15 marzo 2022

“Chi non ha mai giocato nella vita, non prenderà nulla sul serio”

“Chi non ha mai giocato nella vita, non prenderà nulla sul serio” scriveva il poeta Alfonso Gatto in uno dei suoi quaderni d’appunti degli anni compresi tra il 1964 e il 1971, recentemente ritrovati dai familiari e pubblicati da Nino Aragno Editore.
Un invito al gioco per assaporare la serietà delle cose della vita che mi sembra l’aforisma giusto per darvi il benvenuto in questo blog che nasce sotto una stella gattiana e riprende il nome di una rubrica che il poeta tenne tra il 1957 e il 1958 su La Fiera Letteraria.

Raccogliendo la sua felice intuizione di portare piccoli eventi quotidiani nella dimensione del piacere, userò questo spazio per condividere uno sguardo sul presente e aprire finestre su mondi sconosciuti o angoli nascosti di luoghi e persone. Senza mai dimenticare la lezione del maestro che per le sue Cronache del piacere (raccolte in un numero monografico della rivista Sinestesie curata da Epifanio Ajello) si abbandonava a flussi di pensieri, confidenze ardite, indignazioni urlate, parlotti irrequieti alimentando "quell'abitudine di considerare oltre il tempo della cronaca che brucia gli avvenimenti, un tempo più lungo, più paziente; quello della Storia".
Forse, come quelle di Alfonso Gatto, anche queste cronache saranno scritture sparpagliate. Tenteranno però di avere un filo conduttore: la sorpresa. Perché, come scrisse Anna Maria Ortese, “la cosa più sorprendente del mondo, via via che i decenni e poi i secoli trascorrono, rimane sempre, a ben pensarci, l’assenza di sorpresa…”.
Il piacere qui non sarà inteso come unica via possibile, né come obbligo, né come colpa, ma come modo per celebrare la straordinarietà di essere nati e di esistere. Animare questo blog, quindi, è un tentativo di dare corpo all’evanescenza del vivere e, come specificò Alfonso Gatto, “queste Cronache del piacere s’impuntano sull’impertinenza di lasciare almeno ai figli la tecnica della libertà”. 

lunedì 24 gennaio 2022

Sorelle geniali in una saga araba che ricorda Elena Ferrante

Negli Stati Uniti qualche critico letterario ha accostato Corpi celesti della scrittrice omanita Jokha Alharthi ai romanzi di Elena Ferrante per l’intreccio di vicende familiari e la copresenza di vecchi valori ed elementi di modernità in una società in rapido cambiamento dopo la scoperta del petrolio e l’inizio di un’intensa attività di produzione petrolifera. Siamo nell’Oman odierno, poco raccontato sia in letteratura, sia sui giornali, unico paese del Golfo, insieme al Bahrein, ad avere alle spalle una storia millenaria, la storia di un Impero che si estendeva fino allo Zanzibar. In un contesto di grande fermento e trasformazione, nel piccolo paese di 'Awafi si muovono le vite di tre sorelle: Mayya che si sposa per soldi, Asma che lo fa per dovere e Khawla che aspetta il ritorno dal Canada del suo amore. Ognuna sperimenta la propria strada, chi con più spregiudicatezza, chi con maggiore aderenza alle antiche tradizioni, offrendo al lettore una straordinaria gamma di possibili sensibilità femminili e, più in generale, della complessa umanità che nell’evolversi delle relazioni tra i personaggi può ricordare alcune atmosfere de L’amica geniale di Elena Ferrante.    


“Uno studioso una volta mi disse che i libri sono come le persone: alcune sono fortunate. Corpi celesti è il mio libro fortunato” ha raccontato l’autrice diventata nota in tutto il mondo proprio grazie a questo romanzo che nel 2019 ha vinto il Man Booker International Prize ed è stato il primo romanzo scritto in arabo da un'autrice omanita a conquistare il più importante premio letterario dedicato alla narrativa tradotta in inglese nel Regno Unito. “Corpi celesti” finora è stato tradotto in 21 lingue ed è appena uscito anche in Italia pubblicato da Bompiani con la traduzione dall'arabo da Giacomo Longhi e il disegno di copertina dell'artista omanita Hanan El Shahi. Sempre per Bompiani uscirà a breve anche un altro suo titolo, Narinjah (Albero di arancio amaro).

Jokha Alharthi, 43 anni, insegna letteratura araba alla Sultan Qaboos University, ateneo situato vicino alla capitale, Mascate, ma Corpi celesti lo ha scritto a Edimburgo mentre conseguiva un dottorato in poesia araba classica. Tutti i personaggi, però, sono ispirati a gente del suo paese e sono raccontati in terza persona, a eccezione di 'Abdallah, figlio di un ricco e autorevole mercante di schiavi che sposa Mayya e con la quale ha una figlia, London, che diventerà medico e sarà una donna forte ed emancipata. 'Abdallah riflette sulla sua vita mentre si trova tra le nuvole, in volo dall’Oman a Francoforte e, nel flusso dei ricordi che riguardano tutta la famiglia, emergono le sue debolezze nascoste dietro una solida corazza di apparenza e si evince quanto il sistema patriarcale ancora molto radicato nella società omanita, danneggi anche gli uomini, non soltanto le donne. Del resto, come dice un antico proverbio, “il sole non si può nascondere con una mano”.

Corpi celesti è, dunque, un “libro fortunato” che tra proverbi, saggezze beduine, lune piene, segreti, aspirazioni e vecchi valori messi in discussione parla di quattro generazioni che in una società arabo-musulmana in cui la schiavitù è stata abolita solo 1970, ridefiniscono ruoli, ribaltano esistenze e cercano uno spazio nel mondo contemporaneo. 


Il Mattino - 20 gennaio 2022

sabato 8 gennaio 2022

Camila Sosa Villada: vita da trans, viaggio al termine della notte

Durante l’infanzia, quando Camila Sosa Villada ancora si chiamava Cristian Omar, veniva spesso punita dai genitori e rinchiusa in camera per ore. Proprio in quei momenti di isolamento forzato, l’anima smarrita del bambino che si stava cercando, ha avuto le prime occasioni per scoprire parti inespresse di sé stesso. 

Per sfuggire alla noia Cristian Omar si dilettava a scrivere e a vestirsi da donna e, in quei giochi liberi, germinavano i semi della sua futura identità. Dopo anni di solitudine, un rito di passaggio non facile e grandi sacrifici per guadagnarsi da vivere sia come venditrice ambulante e addetta alle pulizie, sia come prostituta, Camila Sosa Villada, argentina, 39 anni, ha trovato strade per ricostruirsi, mostrarsi alla luce del sole e vivere a pieno: è diventata scrittrice e attrice e il suo lavoro viscerale, dirompente e autentico ha conquistato un ampio pubblico. Il suo esordio letterario Las malas, romanzo che mescola autofiction, realismo magico e tematiche queer, sta girando il mondo ed è arrivato anche in Italia con il titolo Le cattive (Sur, traduzione di Giulia Zavagna). 

Partendo dalla conoscenza profonda dell’Inferno delle trans prostitute, Camila Sosa Villada è riuscita a trasformare la vergogna, la paura e l'umiliazione in alta prosa e ha saputo commuovere i lettori con una storia amara e realistica che è un po' fiaba e un po' horror. Le protagoniste sono le trans di Parco Sarmiento a Córdoba capitanate da La Zia Encarna, madre protettrice di tutte dal corpo martoriato e i seni gonfiati dall’olio di motore. Intorno a lei si muovono La Machi, curatrice di ogni male, Maria la Muta che sogna di volare, Natalí, che assume la forma di una lupa a ogni plenilunio, e Camila, studentessa che cerca in ogni modo di non morire buttata in un fosso com’è successo ad altre trans. 

“Siamo creature notturne, perché negarlo – dicono -. Non usciamo durante il giorno. I raggi del sole ci debilitano, rivelano le indiscrezioni della nostra pelle, l’ombra della barba, i tratti indomabili degli uomini che non siamo. Non ci piace uscire di giorno perché le masse insorgono di fronte a simili rivelazioni, ci scacciano a suon di insulti, ci vogliono legare e appendere in piazza. Il disprezzo evidente, la sfacciataggine di guardarci e non vergognarsi affatto”. 

Il romanzo, che diventerà una serie tv scritta da Amando Bó (premio Oscar per la sceneggiatura di Birdman), è un ritratto di gruppo e al contempo un manifesto politico che critica il sistema capitalista neoliberista in cui la finta retorica della libertà di usare il proprio corpo si intreccia con le limitazioni imposte dall’estrazione sociale. Così, quando le trans riemergono di notte, dall’inferno che pochi conoscono, si trovano di fronte l’ostilità della luce e un mondo in cui tutto è contraddizione. 

Il Mattino - 2/1/2022

domenica 15 agosto 2021

Lettere tra due mari: quel dialogo tra gli oceani

Non esiste niente di più urgente oggi di comprendere la relazione tra uomo e natura, come non c’è nulla più necessario di una letteratura e una poesia capaci di spronare i lettori a interrogarsi sulle possibilità di questa relazione. Tra i libri più originali che si muovono in questa dimensione c’è Lettere tra due mari di Ranva Hjelm Jacobsen, pubblicato in Italia da Iperborea (traduzione di Maria Valeria D’Avino) con illustrazioni di Dotre Naomi. 

La scrittrice danese, già nota in Italia per il romanzo Isola ambientato nelle isole Fær Øer, luogo d’origine di parte della sua famiglia, prende il punto di vista di due mari, l’Atlantico e il Mediterraneo, decide di dar loro il sesso femminile e di farle dialogare attraverso una serie di lettere scritte con un linguaggio che mira a cercare un punto di intersezione tra prosa e poesia. 

Le protagoniste di breve libro da molti percepito come un “manifesto idro-femminista” sono due sorelle: Atlantica e Mediterranea. Atlantica è la maggiore, ha centottanta milioni di anni. È anziana e burbera anche se conserva ancora un po' di tenerezza e tanta saggezza. Mediterranea ha cinque milioni di anni. È giovane e sensibile e vive diversi subbugli emotivi. Mediterranea cerca conforto e si confida con Atlantica. In una delle prime lettere scrive: “È sempre più difficile, sorella. Non sono più io. Mi riempiono ogni giorno di cose estranee e inanimate, me le ficcano dentro. Sarà una forma di vendetta?”. 

Mediterranea soffre per la plastica e rifiuti inquinanti che vengono riversati nelle sue acque e non è serena neanche per il riscaldamento dei mari causato dai cambiamenti climatici. In un’altra lettera scrive: “Mi sento strana. Ho la fronte che scotta, il vestito mi si incolla addosso e sono colma di sogni irrequieti”. 

In un’altra ancora lamenta di essere stanca per via dell’estate e del traffico di uomini che lei chiama “creature”. 

“Le creature mi attraversano di continuo nei loro baccelli, troppe in un baccello solo. Le ascolto affondare a banchi” scrive e poi aggiunge: “Quando un baccello delle creature si spacca, ci rifletto. Le creature muoiono con una facilità sorprendente”. Qui il riferimento è alla migrazione e alla sofferenza degli uomini che affidano al mare le ultime speranze.  

“Quanto alle creature: sento il tuo dolore” risponde Atlantica alla giovane Mediterranea sconsolata che non riesce a non struggersi per il destino degli uomini, ma il suo è uno sguardo diverso sul mondo. È più distaccato, è disincantato. Lo dice chiaramente: “È da molto tempo che provo una profonda indifferenza per la vita sulla terra”. 

In comune i due mari, però, hanno un grande senso di nostalgia per le altre sorelle dalle quali sono state separate nel momento in cui la terra eruppe nel pianeta, quando era ancora “un’unica, felice distesa d’acqua”. E, insieme, Atlantica e Mediterranea hanno un piano: tornare a essere quell’immensa e pacifica distesa d’acqua. 

“Cara sorella, tra non molto, grandi foreste ricresceranno in noi, fitte e nere di nutrimento. Pensa questo. Pensa che saremo l’unico suono al mondo” scrive Atlantica. Ma Mediterranea è invasa da dubbi. Trova questa idea “desolata”. In fondo è affezionata alla Terra e alle “creature”. Addirittura ripensa a Icaro, il fanciullo che osò volare fino al sole e cadde in mare e che lei accolse e che ancora considera come un figlio. 

“Il ricordo di Icaro mi rende molto triste e confusa” scrive e fa sentire anche noi lettori spettatori dell’annegamento di Icaro e, al contempo, tutti coinvolti sull’avvenire della Terra, così come inondati da un’improvvisa consapevolezza dell’importanza degli oceani e soprattutto del nostro essere parte della natura. Ranva Hjelm Jacobsen sembra dirci che non abbiamo più scelta. Siamo messi alle strette. Ognuno di noi è obbligato a inventarsi un modo per relazionarsi con l’ambiente che ci circonda e a rispettarlo come dovrebbe essere per ogni rapporto d’amore. 

Il Mattino - 7 agosto 2021


L'oscuro fascino del faro nel libro di Jazmina Barrera

Il primo faro Jazmina Barrera l’ha visto in sogno. “Da bambina, quando non conoscevo ancora i fari, ne ho sognato uno; era abbandonato e lontano dalla costa” scrive all’inizio del suo originale Quaderno dei fari (La Nuova Frontiera - traduzione di Federica Niola), un libro a metà tra il saggio letterario e il diario di bordo della sua personale ossessione per i fari. 

Jazmina Barrera è nata e vive a Città del Messico, quindi lontana da mare, scogliere e porti, eppure il suo sguardo è sempre stato rivolto ai fari finché ha iniziato collezionarli girando per il mondo per vederli da vicino ed entrarci dentro, ben consapevole che “collezionare fari è di per sé un’utopia”. 

In Quaderno dei fari la giovane autrice svela le sue debolezze ammettendo di sentirsi spesso alla deriva. “Forse è vero che mi piacciono i fari perché sono disorientata” dichiara prima di manifestare anche uno dei suoi desideri più inconsci: “Vorrei trasformarmi in un faro: freddo, insensibile, solido, indifferente. Quando vedo i fari mi pare davvero di potermi pietrificare e godere della pace assoluta delle rocce”. 

L’interesse di Jazmina Barrera per i fari, giganti con un occhio solo, ha dunque orientato la sua vita di ricercatrice ed editor. L’ha condotta a trascorre molto del suo tempo ad esplorare mari e coste al confine tra civiltà e natura, ma al contempo l’ha portata a contatto con pagine indimenticabili che grandi autori hanno dedicato alle lighthouses, “case della luce”, da Omero a Walter Scott passando per gli Stevenson, Lawrence Durrell, Virginia Woolf fino a Edagr Allan Poe che non terminò il racconto Il faro

Jazmina Barrera offre delle tappe da percorrere e ripercorrere. Porta il lettore con sé ad ammirare i fari più amati, da quello di Cape Elizabeth, nel Maine, che Edward Hopper dipinse nel 1927, a quello di Montauk Point, a nord est di Long Island, che è stato il primo faro eretto negli Stati Uniti per volontà di George Washington dal 2012 diventato un museo, dal “piccolo faro rosso” costruito su una punta di terra detta Jeffrey's Hook, che si affaccia sul fiume Hudson, a New York, fino ai fari leggendari come quello di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo, distrutto dopo i terremoti del 1303 e del 1323, a quello di Godrevy Island, in Cornovaglia, che avrebbe ispirato il meraviglioso romanzo di Virginia Woolf  Al faro

“È difficile parlare degli argomenti associati ai fari: la solitudine o la follia. Noi che ci proviamo, non possiamo che accettare di essere stucchevoli” sottolinea l’autrice messicana prendendo in considerazione una trappola nella quale per fortuna lei non è caduta. La sua voce narrante è limpida, colta e mossa dal desiderio infantile del collezionare come forma di evasione, di divertimento. Il faro per Jazmina Barrera è l’opposto al pozzo. È luce. È direzione. È l’orientamento di cui ognuno ha bisogno dei momenti di smarrimento. 

Il suo narrare, infatti, non risulta stucchevole. Al contrario riesce a far nascere nel lettore il desiderio di quella solitudine pacifica che hanno cercato e provato i vecchi guardiani dei fari, naufraghi per scelta. “Che sia un uomo in fuga da un passato oscuro, o in cerca di un rifugio nella solitudine fisica da quella che si porta dentro, il guardiano del faro sceglie il proprio esilio” specifica l’autrice che, in altri tempi, sarebbe stata un’ottima guardiana. 

“A qualcuno piace guardare dentro i pozzi. A me fa venire le vertigini – scrive -. Ma con i fari smetto di pensare a me stessa. Mi allontano nello spazio e vado in luoghi remoti. Mi allontano anche nel tempo, verso un passato che so di idealizzare, in cui la solitudine era più semplice”.

Oggi i fari sono in disuso, alcuni abbandonati al lento deterioramento, altri destinati a nuove funzioni, ma ne restano le memorie e le leggende e resta questo bel testo che restituisce loro dignità, bellezza e luce.


Il Mattino - 1 agosto 2021

lunedì 14 giugno 2021

Anne Sexton, quei versi che urlano ancora aiuto

 Le poesie di Anne Sexton ci arrivano ancora oggi come un urlo, l’urlo di una donna che implora aiuto per non farsi addomesticare, per proteggere l’istinto e per sfuggire a una vita rinchiusa nei ruoli di moglie e madre perfetta. In quest’urlo c’è anche il tentativo di adattarsi a una vita tradizionale e alle regole di una società bigotta e conformista e c’è l’impossibilità di riuscirci. 

Anne Sexton, morta suicida nel 1974, a 46 anni, è spesso ricordata per Vivi o muori, il libro che le fece conquistare il Premio Pulitzer nel 1967, ma la sua avventura poetica è più ampia e per la prima volta viene pubblicata in Italia la raccolta in versione integrale de Il libro della follia (La Nave di Teseo). Il volume, curato da Rosaria Lo Russo, è basato sulla versione originale del 1972 pubblicata da Houghton Mifflin che include anche tre racconti espunti nell’edizione di Sterling, oggi ritrovati e tradotti dopo quarant’anni: Ballare la giga, Il balletto del Buffone e Cala le ciocche, in cui affronta anoressia, femminicidio e il suicidio-della-poetessa. 

I suoi versi vengono collocati nella corrente che si sviluppò in America negli Anni ’50 e ’60 della confessional poetry e “Il libro della follia” ne è un’espressione matura. “Trafficare con le parole mi tiene sveglia […] Mi piacerebbe una vita semplice. Invece tutta notte ripongo poesie in una scatolona” scrive in L’uccello ambizione, la poesia che apre la raccolta dedicata alla figlia Joy. E siamo subito con lei, a contatto con il suo animo ferito che trova l’unica cura possibile nella poesia. 

Anne Sexton è nata in una ricca famiglia borghese americana del Massachusetts nella quale non si è mai sentita integrata. Si è sposata e ha avuto due figlie, ma ha continuato a sentirsi inadeguata. Ha vissuto ammirando la zia Nana, spesso protagonista dei suoi versi, bevendo alcool, rimaneggiando fiabe come in Transformations (1971) e facendo reading in pubblico.  

Ha cominciato a scrivere seguendo il consiglio del primo psicoanalista che ha provato a curare la sua psiche fragile e non ha mai smesso. Una delle poesie che meglio rappresenta la trappola in cui cadono le donne che tentano di “fare le brave” e non ci riescono, è Scarpette rosse, che si rifà all’archetipo della fiaba di Andersen. 

Eccomi in pista, nella città morta. M’allaccio scarpette rosse […] Non son mie. Sono di mia madre, e furon di sua madre. Tramandate come cimelio, ma nascoste come lettere sconce. La strada, la casa di cui fan parte, son celate, e tutte le donne pure, son celate”. Anne è la donna che smarrisce l’istinto e la fame dell’animo, perde le scarpe fatte a mano e trova le maledette scarpette rosse, non può fare a meno di danzare con la morte e quindi perde i piedi, la base che sostiene la libertà. Una poesia che mette in guardia anche le donne di oggi nel fare attenzione alle trappole nascoste e a non cedere alla normalizzazione della compiacenza e della violenza subita perché col tempo può trascinare all’inferno.


Il Mattino - 3/6/2021

 

giovedì 13 maggio 2021

Alfonso Gatto, cronista dal Giro d’Italia del 1949 e 'allievo' di bicicletta di Fausto Coppi

La voce che io non so andare in bicicletta ha fatto il giro della carovana. Quando siamo in corsa non è male che Leoni mi sfreccia vicino facendomi l'occhietto, io cerco di sorridergli, ma quando lui è passato mi mordo le unghie per la vergogna. Credevo di trarre vantaggio dalla mia posizione, ora mi accorgo che la popolarità di cui godo è proprio il prezzo del disonore. Perfino i ragazzi all'arrivo mi aspettano per indicarmi: faccio finta di non sentire, ma le loro parole mi restano nell'orecchio e mi fanno arrossire anche quando dormo. "Sembra un vecchio campione" dicono "ed è soltanto un posa-piano. Lui a casa ha il triciclo" e via di questo passo. Hanno ragione. In bicicletta vanno tutti, le donne e i bambini, i preti e i soldati. Io soltanto no.


Fausto Coppi, che un è buon ragazzo, mi si è avvicinato stamane mentre andavo al bagno e mi ha detto: "Perché non cerca di imparare? Se vuole, al pomeriggio le insegnerò io". Ho cercato di rispondergli: "Si immagini quale onore è per me; ma è come se un bambino che deve frequentare la prima classe abbia per maestro un professore d'Università". "Comunque, se vuole, dopo colazione vengo a prenderla in albergo. A quell'ora non ci sarà nessuno e troveremo una via deserta per gli esercizi". Alle due ero ad aspettarlo. Fausto è venuto in pantaloncini corti e si è incamminato con me. Strada facendo abbiamo parlato di tante cose, dei ricordi in comune che incominciavamo ad avere delle nostre famiglie, senza deciderci tuttavia ad incominciare. "Mi dica un po', come ha fatto a non salire mai su una bicicletta nemmeno da ragazzo?" mi ha chiesto ad un certo punto rimanendo col naso arricciato come sua abitudine. "È molto semplice - ho risposto - non sono mai riuscito a stare in equilibrio più di un secondo, ed ho provato, sa, non creda che me ne sia stato con le mani in mano. Non ci riuscirò mai. Lei è per me come il gran medico che le famiglie chiamano solo quando il malato e bell'e spacciato".

"Proviamo", ha detto Coppi tagliando corto. Eravamo in una via deserta lungo un muro. Fausto si è messo in posizione reggendo la bicicletta. Mi sono issato in sella con molto sforzo e balbettando scuse incomprensibili. "Pedali forte, guardi davanti a sé". Le solite parole che dicono tutti. Anche Coppi non poteva che ripeterle. Che se ne fa della sua scienza un filosofo che sia costretto ad insegnare le aste ai bambini? "Pedalare forte". E presto detto, ma come? "Più forte, più forte - sibilava fra i denti Coppi che già incominciava a disperare - Tenga il manubrio leggero, non guardi la ruota...". Quante cose da non fare in un momento? "Scendo - supplicavo - mi lasci scendere".

Per un attimo ho provato la dolcezza del volo, sapendo di cadere ed ero già caduto nella polvere come un guerriero antico. Coppi da lontano scuoteva la testa, con le mani puntate sui fianchi. Decine di curiosi erano affacciati dal muro, che prima sembrava dividesse il deserto e non si azzardavano nemmeno a ridere per la soggezione di vedersi Coppi davanti con l'aria del maestro. Non sapevo dove nascondere la faccia, mi veniva da piangere. "Ma io so nuotare - ho cercato di spiegare a Coppi e agli altri, accompagnandoli all'albergo - da ragazzo mi battevo per i trenta metri". Le mie parole sono cadute nel vuoto.

Ora sono chiuso in camera e sul mio diario vado scrivendo tristi pensieri e un triste proposito. Intanto tutta la città parla e sparla di me, i miei colleghi non sanno come comportarsi. Ma di una cosa sono certo: che se io sapessi andare in bicicletta sarei un campione. È ridicolo che ci si serva di quella macchina da angeli per camminare come fanno tutti.

Cadrò, cadrò sempre fino all'ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare.


Alfonso Gatto