Le poesie di Anne Sexton ci arrivano ancora oggi come un urlo, l’urlo di una donna che implora aiuto per non farsi addomesticare, per proteggere l’istinto e per sfuggire a una vita rinchiusa nei ruoli di moglie e madre perfetta. In quest’urlo c’è anche il tentativo di adattarsi a una vita tradizionale e alle regole di una società bigotta e conformista e c’è l’impossibilità di riuscirci.
Anne Sexton, morta suicida nel 1974, a 46 anni, è spesso ricordata per Vivi o muori, il libro che le fece conquistare il Premio Pulitzer nel 1967, ma la sua avventura poetica è più ampia e per la prima volta viene pubblicata in Italia la raccolta in versione integrale de Il libro della follia (La Nave di Teseo). Il volume, curato da Rosaria Lo Russo, è basato sulla versione originale del 1972 pubblicata da Houghton Mifflin che include anche tre racconti espunti nell’edizione di Sterling, oggi ritrovati e tradotti dopo quarant’anni: Ballare la giga, Il balletto del Buffone e Cala le ciocche, in cui affronta anoressia, femminicidio e il suicidio-della-poetessa.
I suoi versi vengono collocati nella corrente che si sviluppò in America negli Anni ’50 e ’60 della confessional poetry e “Il libro della follia” ne è un’espressione matura. “Trafficare con le parole mi tiene sveglia […] Mi piacerebbe una vita semplice. Invece tutta notte ripongo poesie in una scatolona” scrive in L’uccello ambizione, la poesia che apre la raccolta dedicata alla figlia Joy. E siamo subito con lei, a contatto con il suo animo ferito che trova l’unica cura possibile nella poesia.
Anne Sexton è nata in una ricca famiglia borghese americana del Massachusetts nella quale non si è mai sentita integrata. Si è sposata e ha avuto due figlie, ma ha continuato a sentirsi inadeguata. Ha vissuto ammirando la zia Nana, spesso protagonista dei suoi versi, bevendo alcool, rimaneggiando fiabe come in Transformations (1971) e facendo reading in pubblico.
Ha cominciato a scrivere seguendo il consiglio del primo psicoanalista che ha provato a curare la sua psiche fragile e non ha mai smesso. Una delle poesie che meglio rappresenta la trappola in cui cadono le donne che tentano di “fare le brave” e non ci riescono, è Scarpette rosse, che si rifà all’archetipo della fiaba di Andersen.
“Eccomi in pista, nella città morta. M’allaccio scarpette rosse […] Non son mie. Sono di mia madre, e furon di sua madre. Tramandate come cimelio, ma nascoste come lettere sconce. La strada, la casa di cui fan parte, son celate, e tutte le donne pure, son celate”. Anne è la donna che smarrisce l’istinto e la fame dell’animo, perde le scarpe fatte a mano e trova le maledette scarpette rosse, non può fare a meno di danzare con la morte e quindi perde i piedi, la base che sostiene la libertà. Una poesia che mette in guardia anche le donne di oggi nel fare attenzione alle trappole nascoste e a non cedere alla normalizzazione della compiacenza e della violenza subita perché col tempo può trascinare all’inferno.
Il Mattino - 3/6/2021
Nessun commento:
Posta un commento