lunedì 14 giugno 2021

Anne Sexton, quei versi che urlano ancora aiuto

 Le poesie di Anne Sexton ci arrivano ancora oggi come un urlo, l’urlo di una donna che implora aiuto per non farsi addomesticare, per proteggere l’istinto e per sfuggire a una vita rinchiusa nei ruoli di moglie e madre perfetta. In quest’urlo c’è anche il tentativo di adattarsi a una vita tradizionale e alle regole di una società bigotta e conformista e c’è l’impossibilità di riuscirci. 

Anne Sexton, morta suicida nel 1974, a 46 anni, è spesso ricordata per Vivi o muori, il libro che le fece conquistare il Premio Pulitzer nel 1967, ma la sua avventura poetica è più ampia e per la prima volta viene pubblicata in Italia la raccolta in versione integrale de Il libro della follia (La Nave di Teseo). Il volume, curato da Rosaria Lo Russo, è basato sulla versione originale del 1972 pubblicata da Houghton Mifflin che include anche tre racconti espunti nell’edizione di Sterling, oggi ritrovati e tradotti dopo quarant’anni: Ballare la giga, Il balletto del Buffone e Cala le ciocche, in cui affronta anoressia, femminicidio e il suicidio-della-poetessa. 

I suoi versi vengono collocati nella corrente che si sviluppò in America negli Anni ’50 e ’60 della confessional poetry e “Il libro della follia” ne è un’espressione matura. “Trafficare con le parole mi tiene sveglia […] Mi piacerebbe una vita semplice. Invece tutta notte ripongo poesie in una scatolona” scrive in L’uccello ambizione, la poesia che apre la raccolta dedicata alla figlia Joy. E siamo subito con lei, a contatto con il suo animo ferito che trova l’unica cura possibile nella poesia. 

Anne Sexton è nata in una ricca famiglia borghese americana del Massachusetts nella quale non si è mai sentita integrata. Si è sposata e ha avuto due figlie, ma ha continuato a sentirsi inadeguata. Ha vissuto ammirando la zia Nana, spesso protagonista dei suoi versi, bevendo alcool, rimaneggiando fiabe come in Transformations (1971) e facendo reading in pubblico.  

Ha cominciato a scrivere seguendo il consiglio del primo psicoanalista che ha provato a curare la sua psiche fragile e non ha mai smesso. Una delle poesie che meglio rappresenta la trappola in cui cadono le donne che tentano di “fare le brave” e non ci riescono, è Scarpette rosse, che si rifà all’archetipo della fiaba di Andersen. 

Eccomi in pista, nella città morta. M’allaccio scarpette rosse […] Non son mie. Sono di mia madre, e furon di sua madre. Tramandate come cimelio, ma nascoste come lettere sconce. La strada, la casa di cui fan parte, son celate, e tutte le donne pure, son celate”. Anne è la donna che smarrisce l’istinto e la fame dell’animo, perde le scarpe fatte a mano e trova le maledette scarpette rosse, non può fare a meno di danzare con la morte e quindi perde i piedi, la base che sostiene la libertà. Una poesia che mette in guardia anche le donne di oggi nel fare attenzione alle trappole nascoste e a non cedere alla normalizzazione della compiacenza e della violenza subita perché col tempo può trascinare all’inferno.


Il Mattino - 3/6/2021

 

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