sabato 7 settembre 2019

Oblivion: dal manicomio di San Servolo vite tirate fuori dall'oblio

La fotografia di Rino Bianchi non è solo documentazione e testimonianza, ma rappresenta quel prezioso tipo di narrazione che illumina il lato oscuro del mondo. L’attitudine alla ricerca, alla valorizzazione del dettaglio e alla costruzione di storie impregnate di domande è particolarmente evidente nel lavoro svolto per il progetto WATERLINES, residenze letterarie e artistiche a Venezia, concretizzato nel volume Oblivion
Una sequenza di fotografie in bianco e nero, anticipate da un poema della scrittrice etiope-americana Maaza Mengiste, ci porta sull’isola di San Servolo, all’interno dell’ospedale psichiatrico attivo da metà 800 fino al 1978 (anno dell’approvazione della Legge Basaglia), nel quale furono internati anche molti cittadini di origine ebraica. Il lavoro di Rino Bianchi si concentra proprio su di loro perché, passeggiando sull’isola, si imbatte in una pietra di inciampo su cui legge: “11 ottobre 1944. Da questo ospedale furono deportati 6 pazienti ebrei assassinati nei lager nazisti”, elemento che scatena in lui il bisogno di capire perché i nomi di questi uomini siano stati omessi. 
Comincia così la sua ricerca mirata a tirare fuori dall’oblio le vite di questi pazienti. Nell’archivio dell’ex manicomio trova le cartelle cliniche dei sei “malati” poi deportati nel campo di concentramento di Auschwitz e ce le mostra posizionandoci di fronte alla Storia. Costruisce una narrazione che si sviluppa mettendo a fuoco e tessendo alcune parole chiave che hanno segnato il destino di queste persone: in primis “povero” e “israelita”. 




Rino Bianchi fruga nella Memoria collettiva e riesce a svelare i loro nomi e la loro condizione di partenza prima di essere etichettati “pazzi”. E grazie alla forza della fotografia, riporta alla luce anche i loro volti, immortalati sulle cartelle cliniche in alto a sinistra, di fianco ai dati anagrafici, come veniva fatto di consueto sin dal 1857. 
L’introduzione della fotografia nel manicomio maschile di San Servolo avvenne su iniziativa di padre Prosdocimo Salerio, direttore della struttura fino al 1877, e diventò con il tempo un vero genere, la cosiddetta “fotografia manicomiale veneziana”, che prese piede nel 1882 anche nel vicino manicomio femminile di San Clemente. 
Ai pazienti veniva fatto un ritratto fotografico sia quando entravano, sia quando uscivano dalla struttura, momento in cui erano messi in posa con degli “abbellimenti” (giacche eleganti, copricapi, cravatte, papillon, fiori) per mostrare un cambiamento che doveva essere interpretato come la loro “guarigione”. 
Questo uso della fotografia, che ricorda le pratiche dei nazisti nei lager, sviliva il suo ruolo sacro di portatrice di verità e la conduceva in un territorio ambiguo e strumentale trasformandola in ingannatrice. Territorio distante e opposto a quello abitato da Rino Bianchi che, per restituire un racconto illuminante, ha cercato un contatto con la verità storica e con le relazioni le leggi razziali e al contempo ha provato a toccare l’anima di questo luogo doloroso e triste che già a fine Ottocento era stato fotografato da Oreste Bertani, uno degli esponenti più importanti della fotografia manicomiale. 
Per Rino Bianchi, in questi edifici oggi restaurati, “ogni cosa vive in una sorta di limbo: visibile, invisibile. Ecco, credo che la fotografia possa aiutare a disvelare, a rendere l'invisibile visibile. Far sì che la verità superi le credenze”. 
Il volume Oblivion, che nel retro offre anche un altro lavoro fotografico dell’autore dedicato alla Venezia odierna, Controcanti, acquista una rilevanza maggiore in vista del 75’ anniversario della deportazione ebraica dagli ospedali psichiatrici di Venezia, tra cui quella di San Servolo dell’11 ottobre 1944. 
Dall’esame delle cartelle cliniche dei sei “malati” non nominati sulla mattonella di inciampo non possiamo evincere che si sia trattato di ricoveri organizzati nella speranza di nascondersi e sfuggire all’arresto, anche se forse in un paio di casi si può ipotizzare, ma sembra che la maggior parte dei pazienti vivesse momenti drammatici causati dagli anni di persecuzione e dai conseguenti disagi economici tali da produrre cedimenti psichici. Anche semplici depressioni. E, come scrive Maaza Mengiste, “Ecco come inizia un viaggio: / con un dispiegarsi e un innalzarsi, / un incendio e una spirale lenta e infinita nell'oblio”.


L'Immaginazione, luglio-agosto 2019


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