Le foto della tata-fotografa sono più il gioco di un bimbo che il passatempo maniacale di una bambinaia
Ombre, vetri, specchi, volti buffi, uomini panciuti, palloncini, cani
zoppi, bambole nell’immondizia, navi, gente assonnata, scarpe, manichini.
Vivian Maier ha lo sguardo di un bambino, di chi scopre il mondo. Di chi per la
prima volta si meraviglia e rimane incantata di scene quotidiane senza farsi
domande. I suoi scatti, infatti, non contengono interrogativi, né vogliono
spiegare qualcosa. Sono semplici scoperte causali e sono belli per questo. Per
la purezza che c’è dietro. Per l’innocenza che cela una curiosità senza fine.
A far diventare queste “fotografie ritrovate” oggi di grande appeal per
un pubblico internazionale – a Roma in mostra al Museo di Roma in Trastevere
fino al 18 giugno - probabilmente è proprio l’empatia con lo sguardo che un
tempo abbiamo avuto tutti: quello della curiosità senza finalità.
Vivian Maier ha lavorato per quant’anni con i bambini. Ha fatto la tata,
non sappiamo se per vocazione o per bisogno, ma se ha continuato per così tanto
tempo significa che non si sentiva poi così scomoda in quel ruolo. Trascorreva
ogni giorno a contatto con quel naturale istinto alla meraviglia dell’infanzia
che crescendo svanisce.
Conoscono bene questo sguardo incantato i neo-genitori del mondo. Quando
nasce un bambino si comincia a guardare tutto con i loro occhi, un po’ per intuire
i loro movimenti e proteggerli, un po’ per approfittare di quell’inesauribile
fame di scoperta perduta con gli anni.
E così l’appartamento, il quartiere, l’intera città dove si è sempre
vissuti appaiono nuovi e nel campo visivo si impongono prepotentemente
scavatori, gru, autobus, treni, camion dei pompieri, vetrine luminose, cani, gatti,
farfalle, pozzanghere. Si fa a gara a chi vede prima una macchina della polizia
o un aereo che passa nel cielo e l’entusiasmo per cose scontate, banali, cresce
di giorno in giorno.
Si sviluppa un’attenzione particolare anche verso i bambini stessi.
Incantevoli sono gli scatti di Vivian Maier dei piccoli della sua epoca in giro
per le strade di New York e di Chicago, ripresi anche nel momento liberatorio
del pianto.
Sul mistero della vita di Vivian Maier è stato scritto tanto. La sua
storia è un film. Ci sono tutti gli elementi narrativi, compreso lo spazio per
fantasticare e aggiungere tasselli a un’esistenza enigmatica. Vivian Maier è
nata a New York nel 1926 da padre americano e madre proveniente dalla Francia,
dove ha vissuto parte dell’infanzia, ed è morta a Chicago nel 2009, città in
cui si è trasferita dal 1956. Di lei si sa solo che ha fatto la tata. Nulla
sulla sua vita privata, nulla sull’origine della sua passione per la fotografa
e nulla sul suo desiderio di tenere nascosta la sua arte.
Grazie a John Maloof il suo archivio confiscato per un mancato pagamento
dell’affitto del garage dove era custodito è stato salvato nel 2007. Maloof,
all’epoca agente immobiliare, lo acquistò durante un’asta e capì subito di
trovarsi davanti un tesoro prezioso.
Vista l’enorme quantità di autoritratti ritrovati in quei rullini mai
sviluppati, non si direbbe che Vivian Maier fosse timida. Gli scatti di se
stessa in specchi e vetrine con la Rollei all’ombelico e lo sguardo neutro sono
come una narrazione parallela a quella delle altre fotografie che raccontano la
società dell’epoca, i suoi volti e i suoi simboli. Sono la firma a un lavoro
svolto senza dubbio per passione e senza finalità, guidato probabilmente da
quell’innocente curiosità contagiatale in dosi quotidiane dai bambini con cui
ha trascorso la sua vita. Le sue foto, infatti, sembrano più il gioco di un
bambino che il passatempo maniacale di una bambinaia.
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